Campionario di banalità

Anzitutto eravamo partiti col piede sbagliato, cercando di fare il passo più lungo della gamba. Scivolammo così sulla proverbiale buccia di banana, cavalcando a spada tratta lungo l’argine della nostra incoscienza. Sedemmo sugli allori per mesi, e fu nel nostro maggio che raccogliemmo i frutti lasciati maturare al sole. La giostra dei cavalli a dondolo si fermò, e piansero i gatti sui tetti che avevano una macchia sul nasino all’insù, a guardare quella luna piena ed a rimirar le stelle.
Al di là della siepe, un deserto di macchine e i soliti maxi-sconti: i poliziotti ci mettevano le mani in faccia, donne nervose per i loro matrimoni in pezzi procedevano a zig-zag nel traffico cittadino. Dove son finiti i bei tempi andati? Quando eravamo piccoli i sapori erano più intensi, e si poteva stare sotto il sole che non ti scottavi: adesso chissà cosa c’è nel cibo confezionato. E poi l’aria è tossica e i mari sono inquinati. Le rondini se ne vanno a marzo e tornano a settembre, son qui in ufficio e non vedo l’ora che passi questo lento pomeriggio immobile.
Mi distrae il titolone delle testate giornalistiche: in questi spazi soffocanti non mi resta che impilare cassette della frutta e vivere vendendo matite e dormendo in scatole di cartone. Ho così tante sfumature che non mi resta che disegnare, tratteggio forme su fogli di carta buoni solo per incartarci il pesce. L’ospite mi diventa scomodo e ingombrante, ultimi scampoli di primavera in questo cielo a sprazzi. La fine dell’arcobaleno al di là dei miei sogni d’oro non è che tutto fumo e niente arrosto, sulla rotonda di un valzer dolcissimo nelle pieghe dei miei ricordi in una notte di mezz’estate.

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