Sul pavimento

Si stese sul pavimento. In tutto il tempo precedente gli occhiali gli erano scesi un po’ sul naso. Ora che stava in posizione supina, la gravità lo incollava per terra come carta moschicida: quel magico magnetismo gli tirava la pelle sugli zigomi, lo calcava, gli riallineava le vertebre. Poteva sentire la direzione dei suoi occhi verso il soffitto, come fosse una colonna unta attorno alla quale la logora montatura dei suoi Persol da miope faticava a rimanere aggrappata. La vista migliorò lentamente, mano a mano che la distanza occhio-lente diminuiva di quasi sette o otto millimetri. Sette o otto millimetri sono una distanza talvolta così incolmabile, più o meno come quella che separa le vite dei passeggeri di una filobus affollata, costretti a strusciarsi gli uni con gli altri nella maniera più anonima, educata, fredda e scollegata possibile. Quel pomeriggio non aveva grandi programmi, se non quelli di lasciar soccombere tutti i grandi progetti che gli sovraccaricavano il cuore, restando immobile a raffreddarsi i reni sul pavimento gelido. “I giorni passati sono una distanza ancora più invalicabile”, concludeva, pensando alla data in procinto di cambiare per sempre da lì a dieci ore. Un altro giorno svogliato in un pomeriggio senza parole o condivisioni, senza costruire o distruggere niente: “assedio”! Lo svilimento sentimentale continuava frattanto il suo monotono lavorìo sottocutaneo, e si lasciava entrare in circolo come sempre. Una nuova dose di farina per il sangue, così per rendere più impastato e colloso ogni nuovo battito del pugno nel petto (mea culpa – mea culpa – mea culpa – mea culpa… ora e sempre, in secula seculorum, amen). Dalla sua posizione di vero tappeto, considerava le bassezze cui era giunto, e tutti questi pensieri gli servivano solo per fabbricare cellophane atto a impacchettare sentimenti in ingresso e in uscita, o anche solo quelli da conservare. I cari vecchi sentimenti! Simili a vecchie scarpe, o a vecchi soldati: li guardi e riconosci il loro decadimento fisiologico come testimonianza di un’importanza attribuibile solo alla loro anzianità. “Non ne godrai mai più l’uso, e venererai per sempre il rituale monumentale a perenne ricordo di fiabe e leggende”, pause e parole che non ci sono mai state, gesti ricreati, giustizie e torti filtrati da qualche dozzina di indie-movies. Rimaneva immobile alla vista del cartello “FALLIMENTO!”, gigantografia in caratteri rossi al neon che aveva sistemato proprio vicino alle sue grandi passioni. Non trovava motivo di sbarazzarsene: lo teneva acceso e lo fissava come uno specchio, tentando di spiare tracce dell’invecchiamento. Magari qualche ruga attorno alle lettere “FALL”, oppure una nuova, più visibile, rotondità della “O!”. Osservava con preoccupazione il tremore nella luminosità della scritta, sempre più percettibile mano a mano che i giorni, e poi le settimane, e infine gli anni, fiumavano verso il Grande Mare. Certe mattine spegneva la scritta, e allora poteva rilevare i contorni scuri di muffa e polvere seguire il profilo precedentemente occupato dalla luce. Una spolverata, o una mano di vernice, e tutto sarebbe stato mantenuto. Il mantenimento è fondamentale per accanirsi in direzione ostinata e contraria ad un mondo che vuole andare andare andare andare andare
I pugni. Le palpebre chiuse sul movimento oculare. I pantaloni della tuta blu con le strisce gialle. L’indolenzimento della parte alta della schiena. Il fastidio sotto i calcagni. Il freddo alle chiappe. L’adesione delle gambe e delle cosce al pavimento. Fermo, fermo! Corpo morto, e il silenzioso oceano immaginario a ribollire di immagini dentro la testa senza controllo volontà intenzione pietà umorismo gioco intelligenza sogno eccitazione amicizia elezione possibilità vita errore
In prospettiva era un ottimo cadavere, così innamorato del passato da volerne già farne parte definitivamente. Adorava fantasmi, vizi e ragazzine, senza avere la capacità di afferrare tutto questo, ma solo di subire e subire l’implacabile avanzata del domani, teso a rubargli la necessità di agire adesso.
Squilla il telefono.
“Hai da fare?”
“Sì, devo sistemare / devo suonare / devo studiare / devo fare dei lavori al PC / …”
“Noi si va più tardi a bere una cosa.”
“Io pensavo di andare al cinema.”
“Cosa danno?”
“Ozpetek.”
“Magari ci vediamo più tardi al pub.”
“Va bene.”
Alzarsi, guardare scomparire la scritta, veder comparire il totem del Dovere. È una statua di legno, molto 3D, che puoi osservare da più direzioni dalla stessa prospettiva. Negli angoli contiene occhi e smorfie, talvolta le smorfie baciano l’iride degli occhi, ma è un bacio dato con i denti, succhiando e smozzicando mezze frasi. Le fila di denti sono quadruple, negli interstizi vi sono grumi di cielo e frammenti di luce. Vi è della barba nelle pieghe delle facce, ma è una barba pettinata. Il totem cresce, il totem fa un casino bestiale, e ti punge la schiena con il sottilissimo ago di gomma, che non puoi spezzare, e che troverà sempre la maniera di pungolarti, data la sua flessibilità. Guardava e riguardava il totem, e capiva che era ora di alzarsi, ma non c’era tempo, non c’era, e tuttavia si alzava, e allora metteva un braccio nella braga di un pantalone e l’altro nel colletto della camicia, e intanto ripassava gli appunti scritti sei anni fa. E poi dava un calcio ad un mucchio di libri, perché si disponessero in ordine alfabetico, per autore e cronologico nella libreria, solo che non c’era posto, allora andavano ad ammucchiarsi sullo stereo. Doveva far presto, presto! Correva lungo il corridoio nella luce del finestrone in fondo, e non riusciva a capire se aveva preso tutti i documenti. La valigia pesava. Le chiavi saltavano su e giù nell’ampia tasca destra, facendo un rumore metallico e ritmico – frin! frin! Bisognava assolutamente terminare, e mancavano solamente 29 giorni. E bisognava esercitarsi prima che facesse buio, ma solo dopo le 16. Intanto che aspettava l’ora giusta, magari era il caso di stirare i calzini e lavare lenzuola e federe di cuscini. Aveva un appuntamento a pranzo, ma prima c’era da bere il caffè col Presidente. Avevano pagato l’abbonamento alla televisione? La posta non aveva ancora finito di scaricarsi, ma bisognava riavviare perché l’installazione degli aggiornamenti era terminata. Suonano il campanello: “siamo pronti, andiamo, andiamo!” Erano finite le pastiglie della lavastoviglie, mancavano solo due pagine alla fine del capitolo, c’è da scendere alla prossima, ieri non sono riuscito a venire perché non stavo bene. Il suo telefono continua a squillare libero, ma lei non risponde, trovo le pagine del vecchio diario, apro la finestra, spengo la televisione, abbasso la radio, schiaccio il pedale, alzo la mano, salgo sull’automezzo, faccio un errore, cancello una scritta a matita, lei non risponde, vado ad un appuntamento, bevo una birra, rispondo al telefono, mi affretto verso la fermata, spero di poterla incontrare ancora, metto un post nel blog, faccio gli auguri, aspetto di sedermi sulla poltrona del dentista, lei non risponde, chiudo gli occhi al buio del cinema, sono sdraiato sul pavimento. Si doveva rialzare.