Mariobròs

Pomeriggi interi ad idealizzare la femmina in un reticolo di pixel 8×8. Sedici colori, tre canali mono di pura sintesi sottrattiva. Il vecchio Grundig verdastro, la scatola grigia con su scritto “Nintendo”. A volte le cassette mica andavano. In nessuna rivista se ne spiegava il perché. Niente Google, né Wikipedia, a cui rivolgersi per trovare soluzioni. Il videogioco rimaneva un mistero da risolvere quotidianamente, ogni volta daccapo. Ottavo mondo, tre vite rimaste: ti cagavi sotto, eccome. E sistematicamente subivi traumi freudiani. Di continuo, in quantità industriali. Imparavi ad odiare tua madre, il tuo fratello piccolo, l’amico al telefono, ogniqualvolta ti interrompessero prima di un salto impossibile, o quando entravi nel castello. Odiavi tua madre, e odiavi Toad, quel travestito che in una lingua diversa ti faceva capire che la principessa era in un altro castello. E tu: “d’accordo, dammene ancora”. L’incubo dei fratelli Hammer, quel cazzone sulla nuvoletta e i cosi rossi con le spine. E perché Mario non sviene a forza di spaccar mattoni col capo? Come riesce a rimanere vivo sott’acqua per tutto questo tempo? Fermo e impassibile aspettando che passi la piovra che non va via se la guardi…
Ragazzino, tu non puoi capire. E nemmeno tu, donna dei sogni. Principessa irraggiungibile, premonizione delle future sequele di frustranti delusioni amorose: rischiare la pelle per salvarti dalla dispotica tartaruga mostruosa e sputafiamme, e tu manco ci sei.

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