Il tardivo mio primo post del 2009

In realtà questo post è di stanotte, ma avendo avuto problemi di connessione sono costretto a pubblicarlo solo stamattina. Eccolo.

Tanto per scrivere e non comunicare nulla, ora mi siedo qui, e faccio andare i pensieri, le dita, gli occhi, le mani. Perché ho questa esigenza di strappare, ho questa esigenza di aprire la bocca e fare uscire luce. Ma giusto per un minuto. O cinque secondi. Poi me ne ritorno nella buca che mi sono scavato, e faccio il bravo. Ricomincio a masticare, sputacchiare, accumulare.
Io in realtà non sono dissimile da un castoro. Ma ho i denti cariati, e, sinceramente, cheppalle: sempre legno. Allora mi avvolgo in quella coda da cartone animato, divento una scaglia di cioccolato, che, sciogliendosi, mi rivela. Sopravvissuto ad un colpo apoplettico, ma rimasto cerebroleso. Sbagliato: io sono un malato di cuore. Sono un malato di milza, che però seguita a correre. La milza spappolata tanto si riassorbe in una grossa, oscura, pulsante cicatrice, che va da qui a lì, e si colora di diverso. D’estate prude, d’inverno sente il freddo.
Cicatrice, scar tissue. Che meraviglia, il nostro corpo! Fatevi tagliare una libbra di carne, e se sopravvivete, quel buco si rimarginerà.
Se chiudi una porta, la vista della stanza viene sostituita dalla vista della porta.
Chiaro, ovvio, semplice. Lineare. Se non ci sono più parole, se non c’è più contatto, c’è l’assenza. Assenza, silenzio; silenzio, sconforto; sconforto, dolore; dolore, forza; forza, sicurezza; sicurezza…
No. Non sono sicuro di come continui. Rimane sempre il pericolo della sepsi, e poi la cicatrice si rimargina solo se stai fermo. Squarciati la pancia, e continua a saltare, a torcerti. Vedrai se e quando il taglio si richiuderà! Devi star fermo, ma intanto puoi guardare. Puoi respirare. Puoi accendere un fuoco, e sbuffare messaggi effimeri su, su… sempre più in alto, fino a quando il doppler particolare tiene, finché la nuvoletta non si trasforma in un alone grigio e indistinto.
Lo so. Questo post non ha senso. Inutile che poi me lo venite a dire. Ma capite. Io qualcosa lo devo pur sussurrare. Sbraito già abbastanza, per niente. O per apparire, chissà. Allora sussurro queste mie cosette semi-criptiche, ma è un minuto, poi passa. I minuti passano.
Chiaro, ovvio, semplice. Lineare.
Promettetemi solo che sarete spigoli vivi. E muovetevi. La luce è già spenta, e io che m’aggiro, indistinto nell’invisibile, gradirei sentire comunque qualcosa, pure se fa male, anche se spacca, taglia. Fruga. Così, quando avrò finalmente trovato l’interruttore (scoprendolo inutile, vuoi perché non accende la luce che mi serve, oppure perché la lampadina è da sostituire), potrò cominciare ad apprezzare la mia facoltà di vedere, potrò appigliarmi ad una fatica, a qualche responsabilità maggiore del semplice “devo”.

La parola chiave, amici miei, è RISCHIO.

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