Un tranquillo week-end di paura: domenica bestiale (seconda)

Non le senti poi così tanto circa trenta ore di veglia (quasi) ininterrotta, quando sei nella stanza d’ospedale di un tuo amico che sta anche peggio di te.

Sono le tre del pomeriggio dopo la tragedia evitata quella stessa mattina; e non riesco ancora a rendermene conto.

Lui se ne sta lì a guardarmi debole, malamente avvolto in una casacchina impermeabile di plastica verde semi-trasparente, ed è ancora sporco dall’incidente; ma il lettino su cui è steso seminudo è certamente lavato con Napisan (“è un presidio medico-chirurgico”).

Arrivare alla sua stanza è stato un inferno di scale e di stralci di sofferenza e solitudine. Ricordo l’occhio fisso di una ragazza sdraiata sotto il lenzuolo guardarmi passare oltre, nel corridoio; o frammenti di gesti resi lenti dall’età di qualche anziano paziente solo, sdraiato o seduto sul letto d’una stanza vuota. Un signore triste affacciato alla finestra aperta guarda questa giornata dal sapore metallico, una giornata in grado di mischiare sole e pioggia, l’ordinario e lo straordinario.

L’aspetto più incredibile dell’ospedale è il tempo: scandito e regolare trattandosi di orari per le visite, le ronde degli infermieri, degli inservienti, le visite dei medici; fermo, incerto e appena tracciato in un indistinto bianco-probabile quando sei il paziente, e aspetti. Aspetti di sapere qualcosa, e galleggi nel chiacchiericcio degli altri. I tuoi sensi ottusi dal dolore, dalla noia, non ti fanno render conto della durata di un giorno. Accogli gli eventi in maniera slegata e sequenziale, come se la pausa fra uno e l’altro non conti assolutamente nulla; come in verità è. Eppure fuori di lì cerchi di incastrare qualunque cosa nei ritagli del solo tempo che ti rimane per te, quando non stai parlando con gli altri, quando non stai lavorando, o studiando, o dormendo. O guidando.

Lasciamo il nostro amico ai suoi parenti, ad altri amici. Rivediamo visi, commentiamo, andiamo a vedere l’altro amico, quello con il piede rotto, che ora si trova in un altro ospedale. Siamo i tre che sanno, siamo i preferiti, gli scampati, i responsabili, quelli del “ma se invece di…”, quelli fra loro due e tutti gli altri. Siamo gli ingranaggi di trasmissione, e giriamo a velocità diverse per assecondare e mettere in comunicazione due mondi distinti, uno dei quali più lento.

Ci dividiamo, e rimaniamo in due. Di noi tre, uno torna alla vita normale, vera. Consueta. Con la ragazza, e lo spaziotempo là fuori, e le cose da fare che vi appartengono. Noi due si resta in stand-by, on the road. Chilometri per fare litri di benzina, e procedere da non-luogo, ad ennesimo non-luogo: un fast-food. Io sono sempre più stravolto. Mi ingozzo, rido e faccio battute. Chiacchiero.
Dopo un po’ siamo pronti, da fuori il tempo è giunto per richiamarci a partire, a tornare. Non percorriamo mai veramente delle strade, da un certo punto in poi: siamo vincolati dal ritorno, siamo legati a dei posti, a delle relazioni meno “di carne”, e più “d’obbligo”.

L’aria di casa ci accoglie, nella nostra birreria preferita. Torniamo da nessun-posto, e raccontiamo a tutti quello che abbiamo visto. Le conversazioni si legano, si ramificano. Le nostre esperienze diventano resoconti, il vissuto condiviso è memoria condivisa, e nel passaggio si modifica, filtrata dalle vicende di chi ascolta.

Passa altro tempo, giunge quello del sonno.

Saluto tutti, e me ne vo’.

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