Ventun febbraio duemiladodici (e viceversa)

L’acciuga abbracciava il pomodoro a ridosso del pezzo di formaggio, in un bagno di olio, aceto, erbe aromatiche. Chiacchiericcio, vapori di pane a mezz’aria: bollicine di birra arrampicate all’incavo del bicchiere. Gomiti dentro maniche a creare angoli sulla superficie del tavolo di legno, i ragazzi a guardare la partita stretti dentro i cordoni delle loro emozioni da tifoso, la chat di Facebook dallo schermo del cellulare, e i quadri colorati di blues a decorare il corridoio orecchio-cervello.
“Di tutti i bar che ci sono al mondo, proprio nel mio dovevi capitare?”
Ti sedevi ad un tavolo vicino e irraggiungibile dallo sguardo e dalle intenzioni. Tutti fingevano rassicurante normalità: il tempo doveva aver curato ogni cosa, ormai.
Come una risposta immunitaria, si sono scatenate centomila microbattaglie assordanti, un flusso di tragedia e cella frigorifera, dal cuore, dal cuore, dal cuore. Di battito in battito, di secondo in secondo, di canzone in canzone.
Di un suono possiamo caratterizzarne l’inviluppo nel volume parametrizzando il tempo che impiega a raggiungere il volume massimo (“attack”), e a scendere di volume (“decay”) fino al livello di “sustain”; una volta rilasciato, il suono si acquieta in un determinato intervallo di tempo chiamato appunto “release”.
Una volta rilasciato, il suono si acquieta in un determinato intervallo di tempo chiamato appunto “release”.
Un determinato intervallo di tempo chiamato appunto “release”.
“Release”.