Riesco solo a dirmi che dovrei fare pensieri migliori.

Non è così difficile. C’è un tavolo, ad esempio. Un tavolo in una bella casa. Una casa che non conosco, ma che posso chiamare ugualmente casa. Solo perché ci sei anche tu.
E visto che ci sei anche tu, sono felice. Siamo felici insieme, anche se in stanze diverse. Perché mentre tu non sei qui affianco, io sono seduto a questo tavolo. C’è un orologio che ticchetta, che quando scandisce le ore, fa cantare degli uccellini. Il cinguettio segue la scansione del giorno: ora è più forte, ora è più gentile, a seconda che sia pomeriggio, o sera. C’è dell’acqua che bolle. È inverno, da fuori vengono i rumori dei copertoni delle macchine. Tu sei nell’altra stanza, non so perché ci metti tanto. Dovrei alzarmi, forse; dovrei muovermi verso di te, verso lo spazio che adesso  è nascosto ai miei occhi, dove si consuma il mistero.

Il tè è buono. Come questo libro, come me. Io sono buono, io ho raggiunto la temperatura giusta. Scorro bene. Sono alto un metro e settantasei, peso settantun chili. Sono un po’ miope. Suono il pianoforte. Ti vorrei fotografare, scrivo. Io sono buono, io ti penso.
Di te non so niente. Mi piace quella tua aria, il timbro della tua voce. Vorrei toccare le tue dita, sentire di che sa il risvolto del colletto della tua camicia. Vorrei osservarti mentre scegli qualcosa, sentire quello che hai da dire, ascoltare il tuo parere sui miei sbagli. Vorrei poterti ringraziare per un nonnulla, sentire di poter pretendere tutto da te, gratificare la tua fiducia.

Sono in piedi sulla porta fra le due stanze. Mi sbagliavo. Io sono qui, adesso. Non sono nella stanza dov’ero prima, non sei nella stanza in cui credevo tu fossi. Ho le tue parole, e la mappa dei tuoi lineamenti. Nella toppa della porta ci sono le chiavi.
Basta girarle, uscire. Cercarti. Fare. Condividere.
Resto sulla porta fra le due stanze.
Ho delle cose da sbrigare.

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