Avoid any possible contact

Toni pacati, mani in tasca. Un passo dopo l’altro, solo occasionalmente spiare negli occhi delle facce di chi ti viene incontro. Hai dei segreti da nascondere, molli carcasse di animali morti chiuse in gabbie di cui non hai più la chiave. Ogni tanto ti fermi. Guardi per aria, speri che quell’azzurro nasconda una Volontà che possa pensare anche di amarti. E devi fare qualcosa per quelle fitte al torace. Improvvise, subito passeggere.

Un giorno torni a casa e scopri che non c’è il tuo nome sul campanello. Che la tua roba è chiusa al di là di una porta a cui è stata cambiata la serratura. Dalla finestra semichiusa riconosci la suoneria del tuo cellulare, ma non puoi entrare a rispondere. Aspetti.

Ti allontani. Dici: “tornerò più tardi”.

Torni, ma c’è un cane da guardia. C’è la sconfitta, la desolazione.
Accetti la più devastante delle tue svariate e ulteriori privazioni di spazi. Come puoi ben vedere, ora c’è una riga rossa tracciata nel bel mezzo della tua gola. Non puoi che tacere.

Vaghi. Laggiù c’è qualcosa di scuro. Un riferimento legnoso. Massiccio. C’è tanta gente che sorride, c’è buona musica, ci sono ottime sensazioni refrigeranti, rifocillanti.
Qualcosa non va. Sai che è una situazione provvisoria. Puoi solo farti riservare una sedia, ma devi sempre tenere a mente con precisione millimetrica i confini in cui puoi spalancare le tue narici.

Vaghi. Guidi. Non-persona in non-luogo, così intenta a non-vivere non-relazioni.

Vaghi e finalmente non sei più perso. Il tuo corpo ha imparato bene. Con un colpo di frusta, “AH!”, ti sei condizionato in nuovi binari. Dalla piattaforma (“viet ato – a tt r ave rs ar e – l a – r i ga – g i a l l a ”) cerchi di scrutare la data di oggi sul quotidiano che l’uomo al di là dal vetro, sulla carrozza, sta leggendo. Cerchi dei numeri, una foto, un nome, una didascalia. Vuoi così tanto miscelarti nelle storie degli altri. Così puoi addirittura raccontare qualcosa, e cesserà così questo assordante silenzio.

Vaghi con gli occhi. Alberi, palazzi, cantieri, macchie rosa e macchie marroni, automobili, biciclette, bilici, campi di mais, mattoni, tubi, ambulanza, polizia, autovelox, striscia e guard-rail ritmici, fossati, batterie esaurite, corsi d’acqua putridi, foglie morte, pacchetti di sigarette, portoni, finestre, vecchiette che si sporgono, televisioni accese dietro le tende, parchimetri, due centesimi, carrelli della spesa, fermate dell’autobus, accampamenti di nomadi, ospedali, un’oca, mietitrebbiatrici, uomini in giacca, donne con il velo, il mare, avanzi di cibo, scolaresche che fanno “ciao”, coltelli, un morto di fame che dorme, mucchi di trinciato, moli del porto di Desenzano, la chiesa di Castenedolo, il termovalorizzatore. Stop. Tu che siedi sulla ringhiera di un parco di Sirmione, e sorridi.

Stringi tutto. Stringi le mani. Stringi il bicchiere. Stringi rapporti. Stringi le parole. Stringi i pugni. Stringi il volante. Stringi una sconosciuta. Stringi i denti. Stringi delle viti. Stringi il coperchio del barattolo. Stringi il significato della parola “stringere”. Stringi i colori ad olio. Stringi il volume dello stereo. Stringi il tuo addome. Stringi i tuoi respiri. Stringi un cuscino.
Ti stringi forte ai tuoi sogni.

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